Disturbi Specifici dell’Apprendimento: sfatiamo qualche mito

Insieme agli amici della Fondazione Irene ETS, per la Settimana Nazionale della Dislessia, sfatiamo alcune credenze comuni (ma errate) sui Disturbi Specifici dell'Apprendimento

Negli ultimi anni si è parlato molto, e ancora si parla, di neurodiversità o neurodivergenza. Si citano sigle di tutti i tipi, ma conosciamo davvero i significati dietro a queste etichette?

In occasione della Settimana Nazionale della Dislessia, che partirà lunedì lunedì 7 e terminerà domenica 13 ottobre, abbiamo deciso di dare spazio agli amici di Fondazione Irene ETS, ente del terzo settore impegnato a offrire supporto completo a bambini e ragazzi con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (tra cui appunto la dislessia), per farci raccontare i miti più comuni sul tema dei DSA e spiegare perché, oggi più che mai, c’è bisogno di sfatarli.

Lasciamo quindi la parola a Rosa Revellino, responsabile del coordinamento scientifico di Fondazione Irene, e vi rimandiamo al loro sito e ai loro social per maggiori informazioni su tutte le iniziative e attività.


Parlare di neurodiversità certo non è semplice. Talvolta si confondono termini e definizioni perché non c’è ancora una cultura condivisa su questi argomenti che coinvolgono la scuola, i cittadini e i media. Proprio i media talvolta non sanno che alla base dei disturbi di apprendimento (DSA) ci sono diverse modalità di funzionamento delle reti neuronali (cioè il cervello attiva aree diverse) coinvolte nei processi di lettura, scrittura e calcolo. Non si tratta di un deficit cognitivo e di intelligenza, o di altre disfunzioni.

Ho un DSA, sono malato?

I DSA non sono una malattia in quanto non sono legati a un danno organico, ma a un diverso neurofunzionamento del cervello che non impedisce la realizzazione della specifica abilità (lettura, scrittura, numerazione o altro) ma necessita di tempi più lunghi e di attenzione maggiore per svolgere alcune attività. La neurodiversità è una caratteristica innata che permane nel corso della vita. Quando si parla di questo tema si attinge però dal lessico della malattia per definire una condizione di patologia da cui essere affetti o da cui guarire. Non è così. Chi ha un DSA non è malato, funziona solo in modo diverso.

Perché si chiamano proprio Disturbi Specifici dell’Apprendimento e non solo Disturbi dell’Apprendimento?

Una persona che ha questo tipo di difficoltà può essere bravissima e competente in molte aree, e avere difficoltà solo e soltanto in una competenza specifica: per esempio l’area della lettura, della scrittura o del calcolo. Se un bambino non andasse mai a scuola e non venisse mai sollecitato su abilità specifiche quali la lettura o il calcolo, non ci accorgeremmo che ha un DSA: questo ci fa capire quanto la difficoltà del disturbo specifico sia davvero circoscritta solo a un’area, perché tutte le altre competenze sono conservate. Quando un bambino ha una specifica difficoltà nel percorso di apprendimento classico quindi non è svogliato, disattento o meno capace e intelligente. Ha bisogno di un modello diverso che risponda alle sue caratteristiche neuro-biologiche.

Cos’è poi la neurodiversità?

Si tratta del complesso dei diversi profili di sviluppo neurologico nella specie umana:  i profili atipici – come sono definiti i disturbi specifici dell’apprendimento – sono variazioni naturali come ogni altra differenziazione biologica. Per intenderci: occhi azzurri, orecchio assoluto, talento musicale. Invece disabilità, malattia, patologia, problema sono parole errate. Poiché questo tema coinvolge le relazioni umane più importanti – tra famiglia, scuola, lavoro e società – è fondamentale che chi fa informazione possa conoscere in modo competente questo argomento per riuscire a informare e narrare al meglio una condizione di vita diffusa che genera difficoltà emotive, scolastiche e psicologiche proprio innescate da una scarsa conoscenza specifica di insegnanti, genitori e comunicatori. In sostanza: il primo scalino da superare è proprio la scarsa alfabetizzazione culturale.

Qual è il problema più grande per chi ha un DSA?

Principalmente il contesto in cui vive, dalla famiglia alla società, alla scuola. Inoltre è molto facile scivolare nella trappola della discriminazione, dello stigma e del pregiudizio.

Un bambino o ragazzo dislessico chissà che destino avrà?

Se seguito nel modo corretto, con strumenti adeguati alle sue caratteristiche, potrà lavorare alla NASA.

Ma cosa succede davvero dopo la diagnosi?

In questo complesso universo di definizioni ed etichette si muove ogni famiglia che di fronte alla diagnosi si sente crollare il mondo addosso. Spesso non sa cosa fare, a chi rivolgersi e se – soprattutto – ad attenderle ci sarà il difficile mondo della malattia, fatta di specialisti, diagnosi e spese onerose. Quando si legge che un bambino è “affetto da dislessia” è questo il paradigma che andiamo rinforzare.

Il viaggio nel disturbo specifico dell’apprendimento inizia con un documento che ci chiama certificazione e che attesta il DSA (dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia). Affinché la certificazione sia pienamente valida e riconosciuta dalle scuole e dalle istituzioni pubbliche, deve essere rilasciata dalle ASL oppure dai soggetti privati accreditati e autorizzati dalla Regione di appartenenza. Nel secondo caso il documento ha lo stesso valore di quello rilasciato dalle ASL. A seguito della certificazione la scuola prende atto della diagnosi e gli insegnanti possono predisporre un Piano Didattico Personalizzato (PDP). Questo PDP non solo deve essere redatto accuratamente, ma deve essere letto e approvato dalla famiglia. E poi ovviamente applicato.

Questo succede? Non sempre. Per questo leggiamo sui media notizie che riportano casi di ricorso perché lo studente è stato bocciato nonostante il DSA. Il disturbo però non deve essere una scorciatoia per la promozione, è una condizione che richiede di diritto una serie di strumenti didattici compensativi. Il PDP infatti attesta l’iter scolastico della persona che ha la possibilità, e appunto il diritto, di accedere alle misure dispensative e compensative per agevolare il suo percorso didattico, in modo da tutelarne e garantirne il successo formativo, secondo la legge 170/2010.

I ragazzi che hanno un DSA sono dei privilegiati?

No. Adottano strumenti che sono necessari alla loro struttura neurobiologica. Una persona miope potrebbe leggere un testo a distanza senza occhiali? A complicare le cose, tutta la burocrazia. Spesso i tempi di attesa per una certificazione tramite il SSN sono molto lunghi. E la famiglia che ha bisogno di questo documento per consentire al ragazzo di avere il suo iter scolastico deve rivolgersi al mondo privato, con costi che oscillano tra i 150 e i 200€ a certificazione. E così ovviamente gli enti certificatori aumentano per sopperire alle difficoltà del sistema pubblico.

Dopo aver ottenuto questo documento la macchina però si ferma. Come si legge dalle informazioni ufficiali, la legge 170/2010 non prevede nessuna forma di sostegno economico se non un’indennità di frequenza che è un beneficio economico riservato ai minori che presentano difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie dell’età”. Ma non è detto che venga concesso e in ogni caso parliamo di poco più di 270 euro mensili, da destinare a visite specialistiche, acquisto di programmi e strumenti didattici.

Per avere l’indennità di frequenza è inoltre necessario presentarsi a visita dalla commissione per l’accertamento dell’invalidità, la quale stabilisce se il bambino rientra nella condizione prevista dalla legge in base al grado di compromissione scolastica ed emotiva (ma non abbiamo detto che i DSA non sono una disabilità?). Non dimentichiamo inoltre che è necessario non superare i 5700 euro circa di reddito, per rientrare nel sostegno economico! Sulla famiglia ricade tutto il peso economico ed emotivo della gestione ordinaria delle loro necessità: monitoraggio periodico, visite specialistiche, strumenti digitali, tutoraggio specializzato. Spesso l’ansia, lo stress e il senso di inadeguatezza che si creano nella gestione di queste criticità portano la famiglia ad avere bisogno di figure cliniche e terapeutiche che hanno costi anche più rilevanti.

Oggi il DSA è una condizione comune che ha delle caratteristiche specifiche?

Purtroppo questa consapevolezza non è diffusa pienamente. Si tende ancora a nascondere, negare, rimandare. Risultato: anatemi contro le eccessive diagnosi e pregiudizi ancora radicati. Dobbiamo poi anche sottolineare che quando una famiglia arriva a una diagnosi – fatta e comunicata in modo corretto – si apre uno spazio di libertà e riappropriazione di identità. Questi ragazzi non sono più incapaci, inabili, deficitari. Hanno delle caratteristiche diverse. Le diagnosi per i DSA sono in crescita e c’è senza dubbio una maggior attenzione al problema. E chi si indigna per l’eccessiva patologizzazione, cioè le troppe diagnosi, forse non capisce che spesso dare voce clinica a qualcosa significa dare visibilità e mettere in priorità. Non è la strada più giusta sempre, ma talvolta l’unica possibile in un contesto culturale sordo, arretrato e disinteressato.

Rosa Revellino, Coordinamento scientifico Fondazione Irene ETS


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