“Non credete a ciò che vi hanno detto sulla disinformazione”

Il New Yorker ci parla di disinformazione e credenze - le “loro” e le “nostre” - con un pizzico di filosofia.

L’articolo “Don’t believe what they’re telling you about misinformation” esce il 15 Aprile 2024 a firma di Manvir Singh (e nella versione cartacea nel numero del 22-29 aprile dello stesso anno). Quella che segue non è una traduzione, quanto invece un riassunto con qualche nota che, speriamo, possa risultare interessante.

In effetti il tema è di grande interesse, e chi tra voi lettori ci ha raggiunto sul nostro canale Telegram (e chi non l’ha ancora fatto si consideri invitato!) sa che ci chiediamo spesso: “Ma come qualcuno può credere a certe cose?”, e non è una domanda facile a cui rispondere.

Troppo spesso il dibattito sulla disinformazione è semplificato grottescamente in maniera tale che esistano due grandi schieramenti: “noi”, normali ed intelligenti e dotati di pensiero critico, e “loro”, la rumorosa orda dei disinformati fatta di ignoranza crassa e stupidità. Nulla di più sbagliato. Il fenomeno della disinformazione e quello della credulità (cioè perché una persona arrivi a credere a certe cose e persista nel credere in queste cose anche di fronte a delle evidenze che ad altri paiono schiaccianti) sono complessi e strettamente legati, possono essere affrontati sotto molti punti di vista ma siamo ancora lontani dall’avere delle risposte concrete e incontrovertibili. Senza pretese di voler quindi dare la soluzione definitiva, pensiamo che questo articolo possa aiutare i nostri lettori a capirci di più.

Singh comincia il suo pezzo ricordandoci una storia divenuta ormai tristemente famosa: quella di Mike Hughes. L’idea di Hughes era di raggiungere un miglio di altitudine decollando con un mezzo di sua fabbricazione lanciato da un camion modificato appositamente, ma l’impresa ebbe un tragico epilogo: “milioni di persone hanno visto Mike Hughes morire”, in tanti infatti lo videro schiantarsi al suolo. La dimensione “di massa” che ha preso la disinformazione è un elemento che vorrei personalmente sottolineare qui: non solo in termini di diffusione globale della disinformazione, che è un fenomeno già osservato in precedenza, quanto invece per la spettacolarizzazione che il fenomeno ha assunto e per la valenza “identitaria” che andremo ora a vedere. Hughes aveva già costruito dei razzi prima (nel 2014 e nel 2018), e progettava un “rockoon”, una combinazione tra un razzo ed un pallone aerostatico che l’avrebbe portato oltre l’eterosfera da cui avrebbe potuto osservare in prima persona la forma della Terra. Il lancio del 2020 doveva essere una dimostrazione per una serie di “Science Channel” (un canale americano a pagamento, parte del gruppo Warner Bros Discovery) dedicata agli “Homemade Astronauts” (potremmo tradurlo con Astronauti fai-da-te): all’altezza che sperava di raggiungere non sarebbe stato possibile osservare davvero la curvatura terrestre, ma il lancio poteva generare interesse per le sue future imprese.

Questo perché Hughes, ci dice Singh, era uno dei più noti “terrapiattisti”. “La teoria della Terra piatta potrebbe sembrare uno di quei prodotti di una satira che si è spinta troppo in là, come anche Gli Uccelli Non Sono Reali (un complotto nato come burla dell’internet e poi diffusosi: gli aderenti pensano che i volatili siano tutti stati sostituiti da creazioni artificiali messe in giro dai governi per spiarci), ma è diventata come un culto per cospirazionisti anti scientifici, crescendo sinergicamente con movimenti come QAnon (secondo le rivelazioni di questo agente Q, Trump starebbe lottando contro una potente élite di pedofili satanisti in controllo del mondo) o con gli scettici del COVID-19”.

Il punto che ci interessa, però, non è tanto nelle convinzioni dei “cospirazionisti”, quanto piuttosto nella loro sincerità. Kelly Weill [1], già reporter de Daily Beast, indagò sul caso Hughes e se inizialmente si era convinta che, in fondo in fondo, Hughes non credesse davvero alla Terra piatta, la morte dell’astronauta fai-da-te la convinse che i terrapiattisti sono “seri da morire” sulle loro cose. Pun intended.

Il fenomeno  ha portato ormai ad una cospicua bibliografia ed è all’attenzione dei principali e maggiori attori politici ed economici: il tema della disinformazione è stato ad esempio al centro dei lavori del World Economic Forum di Gennaio 2024, che ha definito il fenomeno come il principale rischio globale a breve termine, al punto che van der Linden[2], ricercatore di psicologia sociale a Cambridge, definisce la disinformazione come un “virus della mente” (Thorin, è lei?), capace di “infiltrarsi nei pensieri”.

Secondo Singh, i sondaggi confermerebbero che le opinioni degli studiosi siano condivise dalla maggioranza degli americani, sicuramente esposti, per molti versi più di noi, all’impatto devastante e massiccio di tecniche manipolatorie a fini politici: l’uso di “deep fake” (video realizzati con l’intelligenza artificiali capaci di simulare comportamenti e discorsi di persone reali) durante le recenti campagne politiche negli Stati Uniti è stato imponente. Questi video sono spesso spacciati per parodie satiriche, ma la definizione non è che un sottile velo dietro cui nascondere una potente arma per ridicolizzare e delegittimare un avversario politico. Alcuni esperti [3] parlano addirittura di uno “tsunami di disinformazione”.

Il fatto è che persone come Mike Hughes non sono “gullible”, un termine che indica un credulone anche un po’ tontolotto, nel senso che credono in qualsiasi cosa. Sembrano rigettare il consenso scientifico però, o la professionalità di chi opera in campo giornalistico al punto di credere, ad esempio, che il governo degli Stati Uniti sia segretamente controllato da una razza “rettiliana” e che una cabala di pedofili di alto livello associati al Partito Democratico operino da una piccola pizzeria di quartiere. “Siamo stati malinformati circa il potere della malinformazione?”, si chiede Singh.

CC BY 2.0Becker1999 – https://www.flickr.com/photos/becker271/50284558357/

Il grande trauma che furono gli attacchi del 2001 fece da propellente a queste teorie: già nel 2006 i “Truthers” (l’auto rappresentarsi come unici veri “cercatori della verità” è un elemento comune a questi gruppi) organizzavano un grande convegno a Chicago su teorie sull’ipnosi di massa, e sul ruolo svolto dal governo nell’11 settembre, concludendo che tutto era stato preparato dai vertici della politica per brama di potere e ricchezza. Alcuni dei “Truthers” parlarono con i giornalisti, una cosa bizzarra considerando la sfiducia di questi movimento verso i media tradizionali. Singh parla allora del “paradosso della credulità”: le azioni dovrebbero teoricamente procedere da ciò che crediamo, ma a volte le credenze, anche le più radicate, esistono nelle loro “gabbie cognitive” e influenzano molto poco il nostro comportamento. Singh propone qua il caso del “Pizzagate”: la Clinton e i suoi alleati avrebbero gestito un traffico di sesso minorile nello scantinato di una pizzeria di Washington. Nei mesi delle elezioni del 2016, un numero enorme di americani (milioni forse) seguirono l’account che parlava del Pizzagate tanto che, nel dicembre di quell’anno, un uomo armato fece irruzione nel locale. È proprio van der Linden a usare il caso per mostrare le implicazioni violente del fenomeno, ma per Singh la cosa sorprendente è piuttosto quanto sia anormale la cosa. So che può essere strano, ma in effetti la gente era convinta che nello scantinato dei bambini fossero sottoposti a terribili sevizie, eppure i più si limitarono a vuote minacce e insulti sui social. Solo una persona fece quello che, in effetti, sarebbe logico fare se fossimo convinti che davvero un reato tanto orribile sta compiendosi sotto le nostre quattro stagioni: intervenire.

Questo paradosso non è proprio solo del mondo cospirazionista, riguarda ad esempio anche le religioni. Luhrmann [4], un antropologo che ha studiato approfonditamente il tema, cita ad esempio il miracolo della transustanziazione (l’ostia diventa davvero il corpo di Cristo), accettato dai cristiani anche se nessuno si aspetta che l’ostia sappia davvero di carne. Ma credo che ancora più esemplificativo sia l’esempio citato da Sperber, i cui studi sulle comunità dell’Etiopia meridionale sono stati pionieristici per la ricerca del razionale nell’irrazionale: i pastori etiopi credono che il leopardo sia un animale che rispetta la santità della Pasqua cristiana, ma nessun pastore lascerebbe davvero il gregge incustodito. Insomma “non crediamo davvero in Dio”, ovvero non viviamo come se pensassimo davvero che Dio esista.

Per Sperber ci sono quindi due tipi di credenze: la prima è fattuale, cioè una credenza che guida il nostro comportamento e ha poca pazienza per le inconsistenze grandi o piccole; e poi ci sono le credenze “simboliche”, che sembrano genuine ma non influenzano le nostre azioni e le nostre aspettative (il caso del leopardo di prima).

Le idee di Sperber sono state recentemente riprese da Van Leeuwen [5] nel suo magistrale “Religion as Make Believe”, in cui il professore di Filosofia alla Georgia State University si dedica con rigore a classificare le differenti credenze e a dettagliare le proprietà che permettono di riconoscerle. Le credenze fattuali servono a “modellare la realtà”, vengono adottate in maniera quasi involontaria e rispondono a contro-prove; quelle simboliche si rivolgono invece al mondo sociale, non epistemico (quindi non all’interpretazione dei fenomeni) e possono essere mantenute anche di fronte a plateali contraddizioni.

Van Leeuwen ha anche notato che il lessico quotidiano ci indica come le persone distinguano spontaneamente tra i vari tipi di credenze. Diciamo che noi “crediamo” per le credenze simboliche, che noi “pensiamo” per quelle fattuali.

“Forse, le persone addentro a queste stravanganti teorie del complotto non credono tanto alla verità di queste, quanto piuttosto credono in queste” conclude Singh. Cioè le considerano alla stregua di credenze simboliche, si identificano in quelli che credono a queste cose.

Un libro di Hugo Mercier (École Normale Supérieure), Not Born Yesterdaydel 2020, si ispira ancora alle tesi di Sperber, per concludere che le preoccupazioni circa la “credulità” (sarebbe gullibility, cioè dabbenaggine) umana non tengono in considerazione quanto effettivamente siamo capaci di assumere credenze fattuali: la nostra comprensione del reale conta. A questo si aggiunge un certo interesse egoistico nel manipolare gli altri, che insieme alla comprensione del reale ci ha portato a sviluppare un insieme di strumenti e adattamenti psicologici per valutare le informazioni. Mercier parla allora di “open vigilance mechanisms”. Non siamo così disposti a credere a qualsiasi cosa, tendiamo anzi istintivamente a cercare di risalire alle fonti di una informazione.

È qui allora, secondo Van Leeuwen, che l’identità di gruppo interviene e può spingerci a interpretare delle credenze fattuali come meramente simboliche nonostante le evidenze a disposizione. In questo senso, più strana è la credenza e maggiore sarà la sua utilità come simbolo di riconoscimento. Mercier invece si concentra più sulla giustificazione: tendiamo a cercare giustificazioni per le nostre “intuizioni”, e raccogliamo storie che avvallino la nostra posizione. Entrambi gli autori, specifica Singh, considerano le credenze simboliche come “espressioni socialmente strategiche”.

Dopo la morte di Hughes questo dibattito arrivò in una forma o nell’altra davanti al grande pubblico. C’era chi diceva che fosse un la trovata pubblicitaria di uno stuntman, e lo stesso Hughes aveva detto che la cosa non aveva niente a che fare col terrapiattismo. Non era del resto la prima volta che si dedicava ad imprese tanto estreme e pericolose, e aveva fatto di questi gesti clamorosi una vera e propria carriera, fin dal 2014. Chiaramente, allinearsi con i terrapiattisti aveva portato a certi vantaggi. Altri, invece, si dicono convinti dell’onestà delle credenze di Hughes, e pensano che volesse davvero dimostrare una teoria che gli stava a cuore.

Discutere della genuinità della sua credenza è tuttavia concentrarsi su una falsa dicotomia, dice ancora Singh. Le funzioni sociali (rivolte a costruire una identità di gruppo) di una credenza simbolica sembrano funzionare meglio quando la credenza è sincera. La tesi dell’auto-convincimento con lo scopo di convincere (o ingannare) gli altri è stata più volte proposta (ad esempio in Deceit and Self Deception, 2011, di Robert Trivers). Una tesi “comoda” per comprendere certe contraddizioni, ma che non convince tutti. Contro chi ritiene che, per la maggior parte, la gente dica ciò che pensa realmente, altri insistono che questo “auto inganno” non sia che un trucco a buon mercato, e appena la questione si fa seria ecco che subito ci si schiariscono le idee (questo hanno provato a dimostrare gli esperimenti di Bullock nel 2015, e poi di van der Linden, i cui dati sono stati pubblicati nel 2023).

Questi studi, secondo Singh, offrono maniere di combattere la disinformazione, ma la trattano allo stesso tempo come un problema di credibilità/dabbenaggine umana e tendono di conseguenza a focalizzarsi su problemi minori, ignorando le più ampie forze sociali che sono dietro questo fenomeno. Van der Linden dà ampio spazio al concetto di “prebunking” come “inoculazione psicologica”. L’idea è presentare alle persone delle informazioni false prima che questi le incontrino nella vita vera e quindi esporre la falsità di queste credenze, una sorta di vaccino epistemico. Possono essere trattate specifiche non verità, o si può adottare un approccio a più ampio spettro, in maniera tale che le persone familiarizzino con le tecniche della disinformazione, dall’utilizzo di un linguaggio emozionale al lessico del complotto. Il prebunking ha ricevuto una enorme attenzione, e van der Linden ha collaborato tanto con grandi compagnie private (Google, WhatsApp) che con enti pubblici (con il Department of Homeland Security e con l’ufficio del Primo Ministro britannico). L’efficacia del prebunking rimane tuttavia ancora da dimostrare fuor d’ogni dubbio, in parte per il numero ancora limitato di studi che mostrino il nesso causale tra disinformazione e comportamento.

Se siamo stati malinformati sulla malinformazione, possiamo tuttavia concludere con van der Linden che le persone siano attratte da teorie cospirazioniste quando si sentono “incerte e impotenti”, quando si percepiscono come “vittime marginalizzate”, quando, come dice Berinsky [6], manca fiducia inter-personale e sussiste un senso di alienazione.

Essere d’accordo con una generalizzazione come “i politici non tengono molto a quello che dicono, a per loro conta solo essere eletti” può indicare una certa tendenza a credere nella disinformazione secondo Berinksy (o meglio, essere considerato un “predittore”, una spia che ci indica che quella persona finirà per cadere nella disinformazione). Non un’idea campata per aria: gli studi indicano una correlazione tra la proliferazione di teorie cospirazioniste e il livello di corruzione degli apparati statali (più lo stato è corrotto, più si tende a credere alle teorie del complotto): in questo, i cittadini degli United States si classificano a metà di una classifica che vede Paesi come Danimarca e Svezia ad un estremo (i meno corrotti, dove i cittadini credono meno alla disinformazione) e Paesi come il Messico e la Turchia (i più corrotti, dove la disinformazione è più forte) dall’altro.

La sfiducia verso l’integrità delle istituzioni farebbe insomma più danni di un troll o di un bot a regime paga della Russia (o di un’altra potenza straniera).

Bisogna allora ripensare a cosa la disinformazione rappresenta: non più, come argomenta Kahan (studioso di giurisprudenza a Yale), qualcosa che il grande pubblico subisce, ma qualcosa di cui il grande pubblico è complice”, più un “sintomo” che una “malattia”.

Bisognerebbe allora tuonare non contro “giornalisti irresponsabili” e “lettori creduloni”, ma contro politiche che hanno finito per minare la fiducia nelle istituzioni, se non proprio la loro credibilità.

“Mike Hughes era tra i disincantati”, chiosa Singh. Ne è prova l’autobiografia “Mad Mike Hughes: The Tell All Tale” (è una espressione che potremmo tradurre come “il racconto senza peli sulla lingua”) che pubblicò da solo nel 2018 come mezzo di autopromozione: lì Hughes si lancia in una ricostruzione politica che vede un pedofilo George H. W. Bush impegnarsi nella guerra in Iraq solo per favorire sé stesso e la lobby della fornitura di armi. “Pensate a questi numeri un secondo – scriveva a proposito della spesa militare – abbiamo gente senza casa in questo Paese: con quei soldi potremmo pagare un mutuo a chiunque. E potremmo eliminare le tasse sulla vendita (un tipo di imposta indiretta adottata in Canada e negli Stati Uniti). Tutti sarebbero allora davvero liberi”.

Hughes non era uno sciocco. Si sentiva però perennemente ingannato. Come scrisse verso la fine del suo libro: “Io voglio il mio caffè e non voglio la mia schiuma di latte sopra (ndr era whipped cream nell’originale, ma col cappuccino funziona lo stesso), sapete cosa vuol dire? Voglio solo la nuda verità”.

Lorenzo Boragno


[1] K. Weill, Off the Edge: Flat Earthers, Conspiracy Culture, and Why People Will Believe Anything, Algonquin Books, 2022

[2] S. v an der Linden, Foolproof: Why Misinformation Infects Our Minds and How to Build Immunity, Harper Collins 2023.

[3] Oren Etzioni, che ha dichiarato alla Associated Press “Gli elementi essenziali sono lì, ed io ne sono completamente terrorizzato”.

[4]  T. Luhrmann, Hog God Becomes Real, Princeton University Press 2020. Questo paradosso delle credenza può portare a forme di frustrazione, individuate ad esempio da Luhrmann proprio tra le comunità di evangelici.

[5] N. van Leeuwen, Religion as Make Believe, Harvard University Press 2023.

[6] Berinsky, Political Rumors: Why We Accept Misinformation and How to Fight It, Princeton Studies in Political Behavior 2023.

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