Le Onna-musha e la discriminazione delle donne in Giappone
Un approfondimento sulla condizione delle donne in Giappone a partire da narrazioni molto distanti dalla realtà dei fatti
Ho di recente visto girare per i social network un post in merito ad un argomento a me molto caro, quello delle onna-musha (女武者), anche chiamate onna-bugeisha (女武芸者), le donne guerriere giapponesi, spesso intese come il corrispettivo femminile dei samurai (侍) o bushi (武士). Dico che è un argomento a me caro perché mia moglie discende da una famiglia di samurai della città di Shimabara, nella prefettura di Nagasaki.
Il post è il seguente:
Onna-musha (女武者) or Onna-bugeisha is a term referring to female warriors in pre-modern Japan. These women fought in battle alongside samurai men. They were members of the bushi (warrior) class in feudal Japan and were trained in the use of weapons to protect their household, family, and honour in times of war.
e non dice nulla di veramente sbagliato, ma sembra suggerire che queste figure ottenessero pari rispetto e dignità delle loro controparti maschili, che è un messaggio molto, molto lontano dalla realtà.
Abbiamo diverse testimonianze dell’esistenza delle onna-musha, le cui origini si fanno risalire almeno fino all’imperatrice Jingu (神功皇后), consorte dell’imperatore Chuai (仲哀天皇), il quattordicesimo regnante del Giappone, due figure leggendarie sulla cui reale esistenza non abbiamo però dati certi. Secondo i racconti, alla morte del compagno Jingu sarebbe stata di fatto la regnante e leader della nazione, almeno fino alla salita al trono del figlio, e avrebbe anche guidato il suo esercito durante la conquista della Corea – di cui non esiste però testimonianza sul territorio – verso la fine del II secolo.
Nel giappone feudale esisteva almeno un’altra categoria di donne guerriero, le besshikime (別式女), che spesso svolgevano il ruolo di guardie, ma di ceto decisamente più basso. Le famose kunoichi (くノ一) invece, le donne ninja che ancora oggi spopolano nei manga e nei romanzi giapponesi, sono molto probabilmente una trovata letteraria, dato che non esistono prove concrete della loro reale esistenza. Personaggi come Tsunade, la kunoichi del romanzo Katakiuchi Kidan Jiraiya Monogatari (報仇奇談自来也説話), hanno poi reso famoso questo termine anche in occidente. Mai sentita nominare? Eppure credo molti abbiano sentito parlare di un certo Jiraiya che cavalcava le rane.
Ma qual è il messaggio fraintendibile del post?
Il post sottintende, in modo comunque abbastanza vago, che esista (o sia esistita) una specie di equità di trattamento tra uomini e donne, quando in realtà il Giappone ha sempre avuto enormi difficoltà con la parità dei diritti. Le onna-musha esistevano davvero, venivano dalla classe dei bushi ed erano addestrate al combattimento per proteggere la famiglia e l’onore. Erano però anche figure molto rare, tanto che quelle di cui ricordiamo il nome sono probabilmente una cinquantina in totale e molte di queste sono figure diventate leggendarie, della cui vita abbiamo pochissime informazioni verificabili.
Figure come quella di Akai Teruko (赤井輝子), che alla veneranda età di 76 anni avrebbe preso parte all’assedio del castello di Matsuida, o come Ōhōri Tsuruhime (大祝鶴姫), chiamata per il suo fervore la “Giovanna d’Arco giapponese” sono state nel tempo trasformate in figure letterarie, facendoci perdere traccia dei loro reali risultati sul campo. Non che comunque ci sia meno epicità nella vita reale delle onna-musha di cui conosciamo la storia nei dettagli: quella che ammiro di più ad esempio è Niijima Yae (新島八重), morta nel 1932 e conosciuta come uno degli ultimi samurai. Ma non solo: è stata anche educatrice, infermiera, famosa studiosa del periodo Edo e co-fondatrice della “Doshisha Women’s College of Liberal Arts” (同志社女子大学), una scuola privata femminile tra le più prestigiose del Giappone, con sede principale qui a Kyoto. Invece della naginata, la classica lancia con cui venivano in genere addestrate le onna-musha, Yae preferiva però usare le armi da fuoco, cosa che la rende probabilmente un po’ meno fedele all’immaginario collettivo.
Perché tutto questo discorso?
Beh, perché nonstante il Giappone abbia avuto un’imperatrice nell’ottavo secolo e nonostante le donne potessero ereditare titoli e prorietà e avere una vera e propria educazione durante il periodo Heian (tra l’800 e il 1200 circa), le cose poi sono precipitate rapidamente. Nel XVII secolo, per esempio, uno dei testi di riferimento per l’educazione della donna recitava che “tale è la stupidità del suo carattere che le spetta, in ogni particolare, diffidare di se stessa e obbedire al marito”.
Le donne in Giappone hanno ottenuto il diritto di voto nel 1945 (un anno prima rispetto all’Italia) e nel 1986 è stata redatta la prima “legge per le pari opportunità d’impiego”, aggiornata poi nel 1997 e nel 2006, legge che proibisce discriminazioni sia dirette che indirette. Nonostante questo ancora oggi c’è un divario di circa il 40% tra lo stipendio medio maschile e quello femminile e le donne in posizioni manageriali sono solo il 10% del totale. Circa del 10% è anche la proporzione di donne membri delle camere del Parlamento, e non perché i giapponesi non vogliano votare un candidato donna, dato che il problema è addirittura a monte: poche sono le donne che vogliono partecipare alla vita politica, e di quelle che decidono di partecipare oltre la metà ha dichiarato poi di essere stata per questo vittima di molestie sessuali. Oltre la metà delle donne giapponesi completa gli studi universari, ma nonostante quessto anche nel mio campo, quello della ricerca scientifica, la proporzione è davvero scoraggiante: meno del 15% di donne sul totale numero dei ricercatori.
Nonostante questa disproporzione, la maggior parte delle donne giapponesi in realtà svolge una professione: il 77% dei lavori part time è infatti svolto da donne. E qui arriviamo probabilmente al nocciolo storico della questione, le cosiddette “tre sottomissioni”. Secondo la tradizione infatti, la donna giapponese deve essere sottomessa al padre quando è giovane, al marito da sposata e ai figli quando diventa anziana. Sono quindi tante le donne che rinunciano ancora oggi alla carriera per occuparsi della casa e della famiglia, lasciando che sia il marito a occuparsi delle entrate economiche.
Spesso anche le donne che lavorano a tempo pieno si trovano a svolgere mansioni diverse dalla controparte maschile: esiste infatti la figura della “signora d’ufficio” (non saprei come tradurlo meglio, perdonatemi), una professione cosiddetta da “colletto rosa” a metà strada tra segretaria e impiegata, a cui viene in aggiunta chiesto di svolgere mansioni ritenute “femminili” quali servire il tè o preparare la colazione per i dirigenti, se non addirittura stirare le camicie.
Solo dopo la Seconda guerra mondiale la Costituzione giapponese ha sancito il diritto della donna a scegliere il proprio partner e a ereditare terre e proprietà, mentre fino al 1908 era ritenuto legale per il marito uccidere la moglie infedele. Marito che, fino alla fine del XIX secolo, poteva divorziare dalla moglie con una semplice lettera, mentre le donne potevano solamente rifugiarsi in convento dato che non avevano modo di avanzare una richiesta formale.
Ma non solo: nel solo 2013 ci sono stati in Giappone 100mila casi riportati di violenza domestica, 21 mila episodi di stalking (nel 90% dei casi ai danni di donne) e decine di migliaia di segnalazioni per violenza sessuale (principalmente da parte di palpeggiatori sui mezzi pubblici). Per non parlare della tratta di esseri umani, che vede ancora oggi molte donne violentate e costrette a prostituirsi nei bordelli (che sono formalmente illegali, forse un giorno dovremmo parlarne) e che viene punita dalla legge giapponese in modo sorprendentemente blando.
La discriminazione per la donna è presente anche nel modo di vestire di tutti i giorni: sono spesso costrette a portare i tacchi a lavoro e pochissime scuole offrono una divisa femminile alternativa con pantaloni al posto della classica gonna.
Questo ambiente “ostile” però ha portato anche alla nascita di figure femminili molto forti e influenti, come quella di Yayoi Kusama, la stilista e attivista femminista diventata famosa per il suo uso “aggressivo” dei pois e dei contrasti di colore; oppure Shidzue Kato, pioniera nel campo dell’informazione e diffusione dei contraccettivi, una delle prime donne ad entrare nel Parlamento giapponese; o ancora Ichikawa Fusae, che ben prima del 1945 aveva iniziato la sua lotta per il suffragio universale. Anche in questa lista di nomi metto una mia preferenza personale: Chiaki Mukai, prima giapponese (anzi, prima donna asiatica) ad andare nello spazio, e prima cardiochirurga vascolare alla Keio University.
Certo, i tempi stanno lentamente cambiando e sempre più donne in Giappone decidono di dedicarsi alla carriera – magari lasciando a casa il marito a occuparsi dei figli, un fenomeno in crescita – o comunque reclamano a gran voce i propri diritti, che per secoli hanno visto calpestati.
Il Giappone è però una società profondamente conservatrice, al punto di essere disposto a usare metodi apertamente illegali per cercare di conservare lo status quo. Ha fatto ad esempio scandalo il modo in cui tre delle principali università di Medicina giapponesi sono arrivate a modificare l’assegnazione dei punteggi dei test d’ingresso per penalizzare le candidate, che avrebbero altrimenti ottenuto la maggior parte delle posizioni disponibili. Sì, avete capito bene: il reale punteggio medio delle candidate era più alto di quello dei loro compagni ed è stato abbassato per mantenere una maggioranza di studenti maschi.
Insomma, non è facile essere una donna in Giappone, nemmeno al giorno d’oggi. La loro è una storia di sacrificio, nell’ombra e nel silenzio, e le figure delle onna-musha sono poco più di specchietti per le allodole di fronte ai reali problemi di una società che era, ed è ancora, profondamente maschilista.
Elia Marin
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